Ci sono momenti in cui capiamo che non possiamo prendere la decisione giusta ma solo quella meno sbagliata. Essere leader vuol dire che faremo in modo che le persone ci seguano, non per quello che siamo, né per quello che possiamo fingere di essere, ma per la visione del futuro che sappiamo dare. Vuol dire che sanno di potersi fidare di quello che diciamo ma anche di ciò che abbiamo scelto di non dire.
Un uomo solo, dietro una scrivania.
Davanti a lui un Paese arrogante e impaurito, solidale e arrabbiato, disperato e speranzoso, più esigente e più povero.
Una Nazione indisciplinata che evoca l'ordine, un Paese rigoroso che reclama libertà, un Paese incerto che chiede regole, indicazioni, conforto.
È il ritratto del nostro premier? No, è il ritratto di quasi ogni premier al mondo oggi, in un momento in cui alla rutilante retorica del privilegio della casta, si affianca, quando non si sovrappone, la mannaia della responsabilità della leadership, il suo lato oscuro.
Il leader non è solo quello che prende lo stipendio più alto, ha la macchina più bella, ha la casa e la barchètta. Il leader è quello che deve prendere le decisioni e fare in modo che gli altri le seguano. La prima parte è difficile, anche se è sulla seconda che viene il bello.
Come qualcuno ama dire, la vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana.
Così quando il tempo è bello, o almeno non piove, tutti a dire la propria, tutti a dire, "io saprei come fare", ma quando arriva la tempesta, allora tutti tacciono, si tengono in disparte. Si resta a gracidare sullo sfondo, buoni solo a criticare il manovratore, che resta solo, come nelle immagini tristi di questi giorni. Un uomo perduto, senza mascherina e senza guanti, con un microfono a sciorinare parole che non possono riempire il vuoto, non possono calmare le paure, non servono a moltiplicare le possibilità.
La leadership nei tempi terribili mi ricorda uno dei miei film preferiti, "Mezzogiorno di Fuoco", in cui, nello splendido bianco e nero di Zinneman, un'interpretazione da Oscar, il personaggio di Gary Cooper sussurra di coraggio e solitudine, la cifra della leadership dolorosa, quella che non raccoglie allori e applausi ma che scivola in un atterrito silenzio.
È la leadership che nessuno vuole, quella dell'attesa impotente. Margaret Mazzantini scrive nel suo durissimo romanzo, Venuto al Mondo: “È stato più facile correre sotto le granate, che camminare sopra le macerie”.
Ed è qui che ci aspetta la leadership dei giorni gravi, quando gli altri ci guardano e sentiamo la responsabilità di mostrare che sappiamo quello che stiamo facendo anche se in realtà non è così, non possiamo saperlo, perché nessuno lo sa.
Ci sono momenti in cui capiamo che non possiamo prendere la decisione giusta ma solo quella meno sbagliata.
Essere leader vuol dire che faremo in modo che le persone ci seguano, non per quello che siamo, né per quello che possiamo fingere di essere, ma per la visione del futuro che sappiamo dare. Vuol dire che sanno di potersi fidare di quello che diciamo ma anche di ciò che abbiamo scelto di non dire.
Questo vale per la leadership di un Paese ma è altrettanto vero per chi oggi, si trova a capo di un'organizzazione, con tutto il peso che questo può comportare.
La leadership dei tempi bui non è quella del generale, né quella del re, è un lavoro di tessitura paziente e ingrato per guidare verso il tornare a credere, ad amare se stessi e gli altri o, forse, a farlo per la prima volta
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